Cecilia Sala arrestata in Iran: la giornalista italiana detenuta nel carcere di Evin
Otto giorni di silenzio diplomatico e trattative riservate: dal fermo in albergo alla visita consolare. La reporter aveva intervistato un fondatore dei Pasdaran e realizzato servizi su temi sensibili
Giovedì 19 dicembre i servizi di sicurezza iraniani hanno arrestato Cecilia Sala, giornalista del Foglio. Attualmente, Cecilia si trova in una cella d’isolamento nella prigione di Evin. La notizia del suo arresto è stata mantenuta riservata fino ad ora, poiché sono in corso trattative tra il governo italiano e quello iraniano per la sua liberazione; i negoziatori italiani hanno richiesto il massimo riserbo per non compromettere le trattative. Il governo iraniano non ha reso pubbliche le accuse contro Sala, e potrebbe essere che non siano state ancora formulate.
La detenzione di Cecilia Sala sarebbe avvenuta nel primo pomeriggio di giovedì 19 dicembre, presso la struttura alberghiera dove soggiornava nella capitale iraniana. Sebbene manchino conferme ufficiali, diversi elementi destano preoccupazione: l'interruzione delle comunicazioni telefoniche poco prima delle 12:30, la mancata consegna dell'episodio quotidiano del suo podcast e l'assenza a un incontro programmato per le 13:00. Cecilia aveva in programma di rientrare a Roma il giorno seguente, ma il volo è partito senza di lei. Per questo viaggio di lavoro, le autorità diplomatiche iraniane nella capitale italiana le avevano rilasciato un visto speciale per giornalisti, valido per otto giorni.
L'apparato governativo italiano ha reagito immediatamente alla situazione. I vertici dell'esecutivo - la premier Meloni e il ministro Tajani - sono stati aggiornati nella mattinata di venerdì 20 dicembre: l'attivazione della macchina diplomatica era però già iniziata la sera precedente, con il coinvolgimento simultaneo dell'unità di crisi della Farnesina, dei servizi di intelligence esterna (Aise) e della rappresentanza diplomatica italiana a Teheran, guidata dall'ambasciatrice Amadei.
Nelle prime ventiquattro ore di custodia, Cecilia Sala è rimasta in totale isolamento comunicativo. Successivamente, le è stato concesso di effettuare due chiamate: una ai familiari e una al suo partner Daniele Raineri, giornalista del Post. Durante questi brevi contatti telefonici, ha riferito di essere in buone condizioni fisiche, senza segni di violenza. Tuttavia, alcuni elementi della conversazione hanno destato attenzione: il suo modo di esprimersi presentava anomalie linguistiche, con costruzioni che sembravano tradotte letteralmente dall'inglese, suggerendo la possibile lettura di un testo predisposto. Non le è stato permesso di fornire ulteriori dettagli sulla sua situazione.
A otto giorni dall'inizio della detenzione, precisamente venerdì 27, è stata concessa una visita consolare: l'ambasciatrice italiana Amadei ha avuto accesso alla struttura carceraria per un incontro finalizzato a verificare lo stato di salute e le condizioni detentive di Cecilia.
Nel periodo che ha preceduto il fermo, la giornalista aveva trascorso una settimana in territorio iraniano, realizzando diversi servizi giornalistici di rilievo. Il suo lavoro si era concentrato su temi sensibili nella società iraniana: aveva dedicato spazio alle dinamiche patriarcali del paese e aveva raccontato la vicenda significativa di Zeinab Musavi, un'artista comica finita in arresto per il contenuto dei suoi sketch satirici. Di particolare interesse era stata anche l'intervista realizzata con Hossein Kanaani, figura storica tra i fondatori dei Pasdaran, che ha avuto un ruolo chiave nella costruzione della rete di milizie alleate dell'Iran in tutto il Medio Oriente nell'arco di cinquant'anni.
Ma perché è così facile che i giornalisti vengano arrestati in Iran?
In Iran i giornalisti vengono arrestati principalmente perché il governo esercita un forte controllo sulla libertà di stampa e di espressione. Il regime teocratico iraniano considera pericoloso il giornalismo indipendente poiché potrebbe diffondere idee e informazioni che mettono in discussione le politiche del governo o il sistema di valori imposto dalle autorità religiose.
I giornalisti che si occupano di temi considerati sensibili - come le proteste popolari, i diritti delle donne, la corruzione, le violazioni dei diritti umani o le critiche alla leadership politica e religiosa - rischiano di essere arrestati con accuse come "propaganda contro lo Stato", "minaccia alla sicurezza nazionale" o "diffusione di false informazioni".
Questo sistema di repressione serve a mantenere il controllo sull'informazione che circola nel paese. Il governo vuole che i media diffondano solo la narrativa ufficiale degli eventi e che non diano spazio a voci dissidenti o critiche. I giornalisti stranieri sono sottoposti a stretta sorveglianza, mentre quelli locali che cercano di fare un'informazione libera e indipendente rischiano intimidazioni, arresti e lunghe pene detentive.
La situazione si è ulteriormente aggravata durante le recenti ondate di proteste, con numerosi arresti di giornalisti che documentavano le manifestazioni e la repressione da parte delle forze di sicurezza.
Ma come funziona il sistema di controllo e repressione?
Il sistema di censura in Iran opera su più livelli:
Il primo è legislativo: esistono leggi molto vaghe che permettono di arrestare i giornalisti con accuse come "propaganda contro lo stato" o "offesa ai valori islamici". La vaghezza di queste norme permette di interpretarle in modo arbitrario.
Il secondo è il sistema delle licenze: per pubblicare un giornale o gestire un sito di informazione serve un'autorizzazione governativa, che può essere revocata in qualsiasi momento. Molti giornali sono stati chiusi con questa modalità.
Il terzo livello è quello della sorveglianza diretta: i giornalisti vengono seguiti, le loro comunicazioni intercettate, i loro contatti monitorati. Spesso ricevono "avvertimenti" da parte delle autorità se toccano temi sensibili.
C'è poi un aspetto economico: molti media sono controllati direttamente o indirettamente dai Pasdaran (il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica) o da altre entità legate al governo. Chi fa informazione indipendente fatica a sostenersi economicamente.
Le conseguenze per chi viene arrestato sono severe: lunghi periodi di detenzione, spesso in isolamento, pressioni psicologiche, a volte torture. Molti giornalisti sono costretti a "confessare" in televisione i loro presunti crimini.
Il caso più emblematico degli ultimi anni è stato quello di Jina Mahsa Amini e delle proteste seguite alla sua morte. I giornalisti che hanno cercato di documentare sia la sua morte sotto custodia della polizia morale, sia le successive manifestazioni sono stati sistematicamente perseguitati. La giornalista Niloofar Hamedi, che per prima aveva fotografato i genitori di Amini all'ospedale, è stata arrestata e accusata di spionaggio.
Questo sistema ha portato a una forte autocensura: molti giornalisti evitano del tutto certi argomenti o li trattano in modo molto cauto. Altri hanno scelto l'esilio, continuando a fare informazione dall'estero, ma questo li espone a ritorsioni contro i familiari rimasti in Iran.
Internet e i social media hanno aperto nuovi spazi di informazione, ma anche qui il governo mantiene un forte controllo: può rallentare o bloccare la rete, filtrare contenuti, identificare e perseguire chi pubblica notizie sgradite.
Dove è detenuta Cecilia Sala?
Cecilia sala è detenuta nel carcere di Evin, una delle strutture detentive più temute dell'Iran, situata nella zona nord di Teheran. È diventato un simbolo della repressione del regime iraniano fin dalla sua apertura nel 1972, durante il regno dello Scià, e ha continuato ad esserlo dopo la rivoluzione islamica del 1979.
Questa prigione è nota per ospitare principalmente prigionieri politici, intellettuali, giornalisti, attivisti per i diritti umani e dissidenti. Molti detenuti stranieri vi sono stati imprigionati nel corso degli anni, spesso usati come "merce di scambio" nelle trattative diplomatiche.
Le condizioni di detenzione sono particolarmente dure. I detenuti vengono spesso tenuti in isolamento in celle molto piccole, con accesso limitato o nullo all'aria aperta. Sono frequenti le segnalazioni di torture fisiche e psicologiche, tra cui privazione del sonno, minacce, percosse e tecniche di pressione psicologica.
Una caratteristica particolare di Evin è la presenza di un'area specifica, denominata "Sezione 209", gestita direttamente dal Ministero dell'Intelligence. È qui che vengono generalmente detenuti i prigionieri considerati più sensibili, compresi gli stranieri: in questa sezione, i detenuti possono essere tenuti per settimane o mesi senza accesso a un avvocato o contatti con l'esterno.
La struttura include anche una sala per le "confessioni televisive", dove i detenuti vengono talvolta costretti a registrare ammissioni di colpa che vengono poi trasmesse sulla televisione di stato iraniana.
Il carcere è diventato anche un simbolo di resistenza. Durante le proteste del 2022-2023, un grave incendio ha danneggiato parte della struttura, attirando l'attenzione internazionale sulle condizioni dei detenuti.
Gli avvocati e i familiari dei detenuti spesso denunciano la difficoltà di ottenere informazioni sui loro cari e di poter effettuare visite. Le comunicazioni sono strettamente controllate e censurate, e i detenuti sono spesso privati di cure mediche adeguate.
La detenzione dei giornalisti in Iran si configura come una delle più severe violazioni della libertà di informazione nel panorama mondiale: le celle delle prigioni iraniane, con il carcere di Evin in prima linea, hanno ospitato e continuano a ospitare centinaia di professionisti dell'informazione, colpevoli solamente di aver esercitato il loro mestiere con integrità e dedizione.
In queste ore, mentre l'attenzione è concentrata sulla situazione di Cecilia Sala, è importante ricordare che dietro ogni arresto c'è una persona, una famiglia, una comunità che attende il ritorno del proprio caro. E mentre attendiamo sviluppi positivi per Cecilia ma anche per tutti i giornalisti attualmente detenuti, è fondamentale mantenere alta l'attenzione su questa sistematica violazione dei diritti umani e della libertà di stampa, ricordando che il giornalismo non è un crimine, ma un pilastro fondamentale di ogni società libera.
La loro prigionia non è solo una questione di libertà personale negata, ma rappresenta un attacco diretto al diritto di tutti noi di essere informati e di conoscere la verità.